L’autoritratto fotografico è sempre stato un argomento appassionante per me. Guardo con interesse e curiosità le foto dei volti che, da dietro la macchina fotografica, si sono portati davanti ad essa. Mi è sempre sembrato un atto di estrema solitudine.
L’occhio nascosto e sostituito dall’obiettivo (un’abdicazione, una ritirata o un atto di fiducia?) rinuncia al proprio posto di comando e, nudo e privo di alcuna protezione, si offre alla vista ipertrofica del mezzo fotografico, impietosa e asentimentale. L’essere vivente, da essere vedente è solo un essere visto. Il primo piano di Buster Keaton in Film di Schneider (sceneggiato da Beckett) mi sembra offra l’espressione calzante di questa condizione.
Giunta alla fine del mio corso di Laurea Magistrale di Cinema, Televisione e Produzione Multimediale all’Università degli Studi di Roma Tre, scelgo quindi di approfondire questo mio istintivo interesse coniugandolo con gli studi accademici. Esiste l’autoritratto cinematografico? E come si sviluppa, per quali motivi e e come?